LINEA GUIDA 21: LUCI E OMBRE
La pubblicazione, da parte dell’Istituto Superiore di Sanità, della Linea Guida per l’autismo, con la relativa valutazione dei trattamenti disponibili sulla base della dimostrata efficacia degli stessi, ha suscitato non pochi dibattiti tra gli operatori del settore, dibattiti non sempre ispirati ad amore per la scienza o guidati da solida metodologia, come ho già puntualizzato altrove (Moderato, 2012).

La LG 21 rappresenta un passaggio doveroso e cruciale, da tempo atteso, per orientarsi nell’ampia e confusa galassia delle “terapie” per l’autismo, molte sostenute solo da claim pubblicitari, prive di un corpus teorico solido che ne sostenga il razionale e di risultati di ricerca che ne giustifichino l’applicazione.

All’interno di questa “giungla di interventi”, un elemento cruciale che dovrebbe guidare nella scelta di un trattamento piuttosto che un altro è infatti l’analisi delle prove di efficacia a sostegno di un trattamento. Nel parlare di scelta di un trattamento vogliamo distinguere tra la scelta effettuata da un professionista (presunto esperto) e la scelta effettuata da un genitore (sprovvisto di competenze professionali specifiche). Per operare in scienza e coscienza il professionista dovrebbe applicare il trattamento la cui efficacia è stata dimostrata dalla letteratura di riferimento. Esistono un’efficacia clinica (effectiveness) dell’intervento e un’efficacia teorica (efficacy) di una metodologia. L’efficacia clinica di un intervento, si riferisce alla rilevanza applicativa del medesimo. Si parla anche di grandezza dell’effetto (effect size) intesa come registrazione effettiva del cambiamento prodotto in seguito all’introduzione di quel trattamento. L’efficacia teorica distingue statisticamente un intervento sperimentale confrontandolo con un gruppo  di controllo. Sebbene non possano esistere interventi clinicamente significativi che non siano anche statisticamente significativi, non vale tuttavia il contrario: interventi efficaci dal punto di vista dell’analisi statistica potrebbero infatti rivelarsi poco efficaci sul piano clinico.

Detto questo bisogna stare attenti a non cadere in una delle innumerevoli trappole che una statistica mal usata e mal raccontata comporta. La statistica non è di per sé garanzia di buona scienza, dal momento che costituisce solo (se correttamente applicata) il verdetto finale proveniente da un’elaborazione matematica di dati dei quali spesso non conosciamo la natura specifica. È la metodologia impiegata in una ricerca, che deve essere accuratamente descritta, che ne garantisce la qualità difendendola dalle continue minacce alla sua validità. In altre parole non è in discussione l’elaborazione in sé, ma lo sono i dati considerati e in seguito sottoposti ad analisi (possiamo infatti approdare a conclusioni (apparentemente) logiche e coerenti anche partendo da una premessa “sbagliata”).

Questa breve premessa ha lo scopo di chiarire che la personale valutazione positiva dei risultati presentati nelle linee guida è una posizione metodologicamente consapevole, e non obnubilata né dalla frenesia quantificazionista né dal terrorismo antimisurativo che sembra agitare molti.

Parlando di scientificità degli interventi, non va dimenticata la garanzia rappresentata dalla prassi protocollare, cioè la ripetizione di protocolli di ricerca, da parte di altri centri di ricerca, in presenza di risultati controversi, con l’obiettivo di corroborare o al contrario invalidare i risultati emersi studi (validità intersoggettiva della scienza e valenza autocorreggente). L’esempio dei vaccini e il caso Wakefield ne sono un esempio.

Altro bias diffuso, anche tra molti “addetti ai lavori”, è che un esperimento per essere considerato scientifico (accettato dalla comunità scientifica) debba necessariamente poter contare su un numero elevato di soggetti (“la validità della ricerca è proporzionale all’ampiezza del campione”). Questa è certamente una delle metodologie valide, applicata a disegni between subjects, ma esistono anche medologie within subjects, a soggetto singolo o con pochi soggetti. Ad esempio le ricerche sviluppate nel campo della Experimental Behavior Analysis e dell’Applied Behavior Analysis (ABA) prediligono la metodologia a soggetto singolo, coerente con gli assunti idiografici di quella disciplina, anche se ritengo che meglio sarebbe integrare in campo applicativo le due metodologie within subjects e between subjects, visto che quest’ultima è quella predominante per la valutazione dell’efficacia in campo terapeutico.

La dimostrata efficacia è condicio sine qua non, indispensabile ma non sufficiente per la scelta di un trattamento rispetto a un altro. Per garantire i massimi benefici possibili dall’intervento un professionista deve saper prestare attenzione alle caratteristiche integrali e idiosincratiche della persona e al contesto globale con cui questa interagisce, non basta che applichi protocolli e procedure validate scientificamente. Sto parlando di relazione terapeutica, nel caso non fosse chiaro. Ma ne sto parlando da un punto di vista scientifico, non magico/sciamanico, perché la relazione terapeutica è da tempo sottoposta dai modelli psicoterapeutici scientifici ad analisi processuale e componenziale.

Nel percorso di scelta i genitori hanno un compito fondamentale, ma altrettanto fondamentale è il ruolo del professionista nel fornire informazioni precise, corrette e accurate in merito agli interventi che la ricerca scientifica ha dimostrato essere efficaci per quello specifico disturbo. Le linee guida a tal proposito sono piuttosto chiare nel sottolineare le prove a sostegno dell’efficacia dell’approccio cognitivo comportamentale e dell’Analisi Comportamentale Applicata come trattamenti efficace per l’autismo. Purtroppo ancora oggi vediamo professionisti del SSN che dichiarano di ignorare l’esistenza di “sigle” come TEACCH e ABA, o addirittura sconsigliano, talvolta con toni minacciosi, i genitori dall’intraprendere quei percorsi: sono certamente casi minoritari ma significativi e inaccettabili.

Le LG sono anche piuttosto tranchant nell’esplicitare quali sono i vari tipi di intervento che attualmente vengono applicati all’autismo ma per i quali non esistono prove di efficacia, (come ad esempio training di integrazione uditiva, comunicazione facilitata, terapia con ossigeno iperbarico), non limitandosi a dichiarare l’assenza di prove a dimostrazione della loro efficacia ma sottolineandone gli effetti potenzialmente dannosi (diete, ossigeno).

La divulgazione delle informazioni relative a una scelta di trattamento per l’autismo continua a rappresentare un elemento di criticità. L’informazione sui mezzi di comunicazione di massa (e internet non sfugge certo a questa regola) è, purtroppo ma quasi inevitabilmente, sommaria e superficiale, spesso notizie prive di fondamento scientifico destano più scalpore e ottengono maggiore spazio rispetto ad altre che meriterebbero più attenzione. Eclatante il caso dei vaccini, già menzionato sopra: la notizia che i vaccini potessero essere una causa dell’autismo, per altro pubblicata su Lancet, una rivista scientifica di rilievo mondiale, è stata ripresa e divulgata in modo consistente (con le successive conseguenze negative da essa derivanti, per esempio migliaia di famiglie che hanno deciso di non fare vaccinare i loro figli, e hanno aperto contenziosi con i servizi nazionali di salute). Peccato però che non abbia ricevuto lo stesso rilievo e la stessa attenzione, per lo meno in Italia, la notizia sulla natura fraudolenta e la conseguente smentita di questo studio: come conseguenza, almeno indiretta, vi sono già state in Italia alcune sentenze che hanno riconosciuto le ragioni di due famiglie nella richiesta allo Stato di risarcimento per il danno (l’insorgenza dell’autismo, appunto) ipoteticamente prodotto dal vaccino. Fortunatamente una di queste, a Bologna, è stata ribaltata in appello, sulla base dei dati scientifici presentati.

Se la diffusione di informazioni corrette rappresenta un dovere da parte della comunità scientifica per mettere le famiglie in grado di effettuare una scelta consapevole e appropriata le linee guida hanno tentato di rispondere a questa esigenza di chiarezza informativa elaborando anche un documento pensato apposta per il “pubblico”, per rendere chiaro anche ai non addetti ai lavori quali trattamenti fossero considerati validi dalla comunità scientifica.

In questa breve discussione sulle LG abbiamo evidenziato diversi punti di forza. Ci sono anche alcuni punti critici. Nonostante le linee guida affermino che “il gruppo delle revisioni inclusive fornisce prove coerenti nel sostenere l’efficacia del modello dell’analisi comportamentale applicata (ABA) su tutte le misure di esito valutate (QI, linguaggio, comportamenti adattivi) quando  è confrontato con un gruppo eterogeneo di interventi non altrettanto strutturati...”, emerge una descrizione dell’ABA confinata alla sola applicazione operativa e un po’ impoverita rispetto al suo corpus teorico metodologico.
Il termine ABA è utilizzato di fatto come sinonimo di “metodo Lovaas”. In tal modo si confonde un livello di analisi processuale (l’ABA come corpus tecnologico applicativo derivata dalla scienza sperimentale) con un livello di analisi procedurale (uno specifico curriculum di intervento):  gli interventi di matrice comportamentale “alla Lovaas” rappresentano solo una possibile e non unica applicazione dei principi derivati dall’analisi dei processi comportamentali (Moderato e Copelli, 2010, a e b). Lovaas è colui che ha applicato per primo con successo all’autismo una serie di metodologie messe a punto a partire dei primi anni ’60 da pionieri come Ayllon e Azrin  in contesti più ampi e diversi da quello dell’autismo, (non ancora riconosciuto dai sistemi diagnostici dell’epoca) e poi codificate nelle loro caratteristiche (Baer, Wolf & Risley, 1968).

L’immagine dell’Analisi del Comportamento che emerge dalle linee guida è dunque un po’ ristretta e poco evoluta: accanto agli interventi basati sul curriculum Lovaas, DTT, vi sono moderne articolazioni degli interventi di analisi comportamentale più orientati in senso evolutivo-ecologico-naturalistico, molto focalizzati sugli aspetti comunicativi e sulla motivazione, più flessibili e inclusivi nei contesti di vita del bambino e meno invasivi. Essi comprendono varie procedure di insegnamento del comportamento verbale (Verbal Behavior Teaching, Natural Language Paradigm), il Natural Environmental Teaching (NET) e l’Incidental Teaching (IT). Inoltre, anche interventi come quelli centrati sulle abilità sociali (Social Skill Training), con i genitori (Parent Training) e con i pari (Peer tutoring), vengono considerati dalle linee guida come esterni all’ABA, nonostante facciano invece parte delle sue core procedures.  Insomma, un “non addetto ai lavori” farebbe fatica a capire che cosa è realmente l’ABA basandosi semplicemente sulle descrizioni che trapelano nel corpus delle linee guida.

D’altra parte l’immagine “distorta” e/o incompleta di ABA che emerge dalle linee guida, va interpretata alla luce di una considerazione di fondo: il modello terapeutico cognitivo-comportamentale è un modello psicologico, non neuropsichiatrico, e l’ABA è un modello psicologico, non psichiatrico. Anche gli autori stranieri citati nelle linee guida come rappresentanti di questo orientamento sono psicologi. Eppure nel panel non c’era nessun esperto qualificato e internazionalmente riconosciuto di Analisi del Comportamento, e mi pare neanche uno psicologo, il che dovrebbe fare riflettere noi psicologi sulla debolezza epistemologica e politica della nostra disciplina.

Un’ultima considerazione. La LG 21 ha prodotto importanti effetti collaterali, e credo non voluti, sul piano dell’applicazione e della formazione. Alcuni di questi sono perversi, come quello di aver stimolato e rinforzato il trasformismo italico (ma non solo); prima ABA era "una mostruosità", guai se la fate, robotizza i bambini, li addestra come animali da circo, i bambini non sono mica topi, e via di questo passo con le rappresentazioni caricaturali.  Ora si è passati al tormentone "ma io ho sempre fatto ABA". Il problema è che in questo giro di autocertificazione si inseriscono operatori senza formazione, che applicano procedure che sono molto lontane dai principi scientifici ed etici dell’analisi comportamentale, e possono essere molto dannose a livello individuale.  Poi ci sono coloro che  producono danni collettivi, insegnando l’ABA, o quello che pensano sia l’ABA: è facile immaginare che tipo di scienza possano insegnare costoro, se va bene è praticaccia one size fits all, cioè l’esatto opposto dell’individualizzazione di ogni procedura che caratterizza gli interventi intensivi precoci basati sull’analisi comportamentale applicata: i principi sono generali, la loro applicazione è individuale.

Purtroppo quando la domanda supera di gran lunga l’offerta, sia di formazione sia di intervento, la qualità precipita. Con una similitudine, si può dire che in questo modo le persone, o per ignoranza, o per mancanza di specialisti, o nella presunzione di risparmiare, si fanno curare dagli odontotecnici invece che dagli odontoiatri: al di là di ogni altra considerazione legale, queste due figure sono divise da 6 anni di duro studio.  Non ci sono scorciatoie.


Paolo Moderato


Riferimenti bibliografici
Baer D., Wolf M. e Risley R. (1968), Some current dimensions of applied behavior analysis, Journal of Applied Behavior Analysis, vol. 1, pp. 91-97.
Bijou S.W. (1979), Some clarifications on the meaning of a behavior analysis of child development, Psychological Record, vol. 29, n. 1, pp. 3-13.
Moderato, P. (2012) Riflessioni a margine delle critiche sulle linee guida relative ai trattamenti sull’autismo: fra rilievi critici e lallazioni pseudoscientifiche American Journal of Intellectual and Developmental Disabilities (ed.it.) 1.
Moderato, P. Copelli, C. (2010). L'Analisi comportamentale applicata (ABA): teoria, metateoria e fondamenti. Autismo e disturbi dello sviluppo, 8-1, 9-36.