EDUCAZIONE ALIMENTARE E SELETTIVITÀ ALIMENTARE (PARTE SECONDA)
Il tema della selettività alimentare nei bambini con disturbo dello spettro autistico è stato ampiamente trattato in letteratura (Ahearn, Castine, Nault, & Green, 2001; Bandini et al. 2010; Ledford & Gast, 2006; Shreck & Williams 2006; Shreck, Williams, & Smith, 2004; Suarez, Nelson, & Curtis 2013;  Volkert & Vaz, 2010).

Per intervenire in modo efficace sui problemi di selettività alimentare è indispensabile considerare non solo l’aspetto dell’alimentazione (ad esempio: cosa mangia e cosa non mangia il bambino) ma anche tutto ciò che riguarda l’educazione alimentare e le routine connesse ai momenti dei pasti, coinvolgendo i caregiver di riferimento (per un approfondimento si veda questo articolo).

Gli approcci “tradizionali” per il trattamento della selettività alimentare prevedono l’utilizzo di strategie reattive come l’estinzione (ad esempio, quando il bambino si allontana dallo stimolo non gradito – cibo – l’operatore propone ripetutamente lo stimolo finchè il bambino non lo accetta). Le evidenze scientifiche mostrano l’efficacia di tali interventi, tuttavia ne sottolineano anche i numerosi effetti collaterali; in primo luogo i momenti dei pasti rimangono o diventano avversivi, in secondo luogo si possono creare situazioni conflittuali con gli operatori e i caregiver.

Anche se tali procedure alleviano i rischi (legati al fatto che il bambino si rifiuta di mangiare) non aiutano a risolvere il problema legato all’alimentazione (ad esempio, non promuovono la consumazione volontaria di cibo) (Riordan, Iwata, Wohl & Finney; 1980).
Shahla Ala’i Rosales e colleghi propongono un approccio alternativo il cui focus è lo sviluppo di nuovi repertori (legati al comportamento alimentare) nel contesto (Ellis, Ala’i-Rosales, Glenn, & Rosales-Ruiz;  2006). Tale approccio mira a sviluppare risposte alternative di fronte a uno stimolo avversivo ed è focalizzato sullo sviluppo di comportamenti “salutari” per quanto riguarda il consumo di cibo; pone inoltre particolare attenzione alle difficoltà sensoriali e programma in modo specifico la generalizzazione con vari stimoli. Infine, l’intero programma, chiamato Yummy Start, è supervisionato e guidato dall’esperienza clinica del professionista e prevede l’utilizzo di procedure di shaping che non procedono in modo lineare.

Come in tutti i programmi di intervento sulla selettività alimentare si prevede una prima fase di assessment che comprende una intervista con i genitori o i caregiver di riferimento per costruire la storia alimentare del bambino, per raccogliere le preferenze alimentari e i cibi non graditi/rifiutati, per raccogliere informazioni circa le ruotine dei pasti e per chiedere ai genitori quali sono gli esiti che si aspettano dall’intervento. Per completare l’assessment si svolgono poi delle osservazioni dirette del comportamento del bambino durante i pasti.

Concluse le fasi di assessment e di baseline il primo obiettivo fondamentale del programma è quello di creare una relazione positiva con l’operatore che accompagnerà il bambino nel corso del training: nello specifico si modella gradualmente il comportamento di avvicinamento all’operatore e si dedica il tempo necessario affinchè il bambino e l’operatore possano conoscersi a vicenda (Ellis et al. 2006; McLaughlin & Carr 2005; Stuecher 1972). Nello specifico si misurano le interazioni positive tra bambino e operatore così come gli episodi cui il bambino si allontana.

Il raggiungimento di questo primo obiettivo è fondamentale per poter passare alla prima vera e propria fase dell’intervento, ovvero la fase che gli autori denominano “Happy Opportunities”, opportunità felici. Come suggerisce il nome durante questa fase non si prevede nessun tipo di strategia reattiva, piuttosto si espone il bambino a situazioni piacevoli e non stressanti durante il momento del pasto: l’operatore e il bambino sono infatti seduti al tavolo e ognuno ha di fronte un piattino con alcuni cibi (tra questi alcuni sono graditi altri no). L’operatore si impegna in conversazioni positive e non riguardanti il cibo, assaggia il cibo dal proprio piatto, ma non chiede al bambino di emettere alcun comportamento verso il cibo (il bambino è anche libero di alzarsi e allontanarsi).
Gli autori suggeriscono di passare alla fase successiva del training nel momento il cui il bambino rimane seduto a tavola per qualche minuto (i tempi precisi sono ovviamente da definire per ogni bambino) emettendo comportamenti positivi (ad esempio: conversa con l’operatore o gli rimane vicino, mantiene espressioni positive …) per alcuni pasti.

La fase successiva è quella dello shaping, durante la quale l’operatore modella gradualmente i comportamenti meta identificati (ad esempio: mangiare la pasta).

In questo caso l’operatore commenta in modo positivo il cibo e rinforza in modo specifico qualsiasi comportamento di avvicinamento al cibo. Le approssimazioni verso il comportamento meta (mangiare il cibo) possono essere tollerare il cibo nel piatto, entrare in contatto con il cibo (attraverso i 5 sensi), interagire e infine assaggiare il cibo proposto.

Il processo di shaping procede in modo non lineare, ed è quindi fondamentale l’esperienza clinica dell’operatore nell’individuare l’approssimazione raggiungibile per il bambino in quel preciso momento, in quel contesto e con quel cibo.


Per approfondire:
Leaf, J. B., Cihon, J. H., Ferguson, J. L., & Weinkauf, S. M. (2017). An introduction to applied behavior analysis. In Handbook of Childhood Psychopathology and Developmental Disabilities Treatment (pp. 25-42). Springer, Cham.